Vigilia
La parola che ho scelto è “vigilia”, che ricorre nel canto XXVI dell’Inferno, il canto di Ulisse: “la vigilia d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente”.
Dante usa questo vocabolo anche nel canto XXVI del Paradiso, ad indicare l’atto del destarsi; nel canto XV del Purgatorio, con il significato di ritorno alla conoscenza; ancora una volta nel canto XXIX del Purgatorio, per indicare la veglia.
Partendo dall’etimologia, vigilia deriva dal latino vigilia. Dante non usa mai il temine ‘veglia’ ma impiega proprio la parola vigilia in tal senso, ossia la veglia dei nostri sensi che è il breve spazio della vita a cui segue l’eterno sonno della morte. Dante mette in bocca a Ulisse questa parola, quando l’eroe esorta i compagni a non avere paura dell’avventura e ad andare oltre le Colonne d’Ercole perché fatti non foste per vivere come bruti ma per seguire virtute e canoscenza.
La vigilia dunque è ciò che resta della nostra vita. E per Ulisse la vita è curiosità da soddisfare, panorami da vedere, suoni da udire, conoscenza da acquisire e cumulare.
Come sostiene il critico Mario Fubini, che all’Ulisse dantesco ha dedicato pagine altissime nella sua Enciclopedia Dantesca, Ulisse è il prototipo di quella umanità pagana che fida solo nelle sue forze e non collega il suo agire ad una dimensione metafisica e ultraterrena. L’uomo cristiano sa bene che esiste, in Dio e in ciò che Dio ha creato, una pluralità di aspetti che sfuggono (ci verrebbe da dire: devono sfuggire) alla conoscenza umana e alle risorse che il desiderio di conoscenza può mobilitare.
In anni recenti lo stesso Fubini ha interrotto e, si può tranquillamente anche dire, sconvolto una secolare tendenza critica. Fubini ha messo in evidenza che Ulisse qui non è affatto punito per il peccato di superbia, per aver voluto varcare un limite invalicabile. È punito invece, come gli altri peccatori della bolgia, per il suo fraudolento consigliare e per il suo fraudolento agire.
Fubini osserva che, in Ulisse, l’umanità è vinta, ma non umiliata. Ulisse non patisce le conseguenze mortificanti del peccato di superbia (ὕβϱις ).
Giandomenico Mazzocato accosta il termine vigilia a folle volo, ritenendo queste le parole chiave del canto stesso.
Ulisse, appartenendo alla schiera degli esseri umani, si distingue dai bruti per la ricerca di virtute e canoscenza, non vuole sprecare questa “vigilia”, ciò che resta della propria vita terrena prima del sonno eterno, e allora decide di gettarsi in quello che è chiamato “il folle volo” che tuttavia di folle non ha nulla.
Infatti, varcando le Colonne d’Ercole, egli non ha commesso alcunché di peccaminoso, non ha trasgredito ad alcun divieto celeste, ma ha tentato la sua impresa senza l’assistenza e la presenza della Grazia, che non poteva conoscere, che non gli poteva essere concessa, a lui uomo vissuto prima della venuta di Cristo.
Folle dunque non vorrà dire diabolico, pazzesco, antitetico alla divinità, ma, come in altri luoghi danteschi, eccessivo, squilibrato, non sorretto dalla saggezza. È un termine che sta bene in bocca ad Ulisse il quale, nella sua nuova dimensione di anima dannata, sa.
Sa che quel suo viaggio aveva bisogno di un supporto, quella della Grazia appunto, che non poteva avere.
RIOLA ALINE
Ultima revisione il 17-09-2024