Imbestiarsi

La parola “imbestiarsi” viene utilizzata da Dante nel verso 87 del XXVI canto del Purgatorio e letteralmente significa: rendersi simile a una bestia nell'aspetto e nel comportamento. Il poeta si avvale di tale verbo una sola volta, riferendolo a un soggetto a noi noto e probabilmente inaspettato, perciò risulterebbe confusionario rivelare subito l’identità di questo senza aver prima introdotto, anche in breve, il canto in questione. Dunque, immergiamoci nella VII cornice del purgatorio e iniziamo anche noi questo “viaggio” insieme all’Alighieri, fra le schiere dei lussuriosi.

In apertura di canto Dante cammina attraverso l’ultima cornice del purgatorio, seguendo con atteggiamento umile Virgilio e Stazio, due poeti incontrati precedentemente dall’autore e che accompagnano il protagonista lungo il suo cammino. Considerate lettori che anche i più piccoli particolari, che a noi potrebbero risultare di scarsa importanza, fra i versi della Commedia assumono un ruolo rilevante e significativo, così il sole che tramonta, colpendo una spalla del viaggiatore, ne proietta l’ombra al suolo; fatto ovvio, se non fosse che ci troviamo nel purgatorio, dove le anime, non avendo corpo, non hanno ombra. Un primo gruppo di lussuriosi, certamente stupito, si lascia sfuggire frasi di sorpresa e fra queste giunge alle nostre orecchie: “Colui non par corpo fittizio” (al verso 12, dove “fittizio” significa “inconsistente”, “finto”). Dobbiamo immaginare i penitenti come anime nude, costrette a muoversi fra le fiamme; essi si scambiano baci, piangono e gridano o cantano per scontare il proprio peccato; alla vista di Dante questi si protendono verso di lui incuriositi, ma solo un lussurioso si rivolge a quel viandante tanto particolare, con le seguenti parole:

«O tu che vai, non per esser più tardo,

ma forse reverente, a li altri dopo,

rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo. 18

[..]

Dinne com’è che fai di te parete

al sol, pur come tu non fossi ancora

di morte intrato dentro da la rete». 24

Dunque, Dante sta per rispondere a tal quesito, quando la sua attenzione viene attirata da una seconda schiera di penitenti, che cammina in senso opposto alla prima. Come i due gruppi si incontrano, baciarsi tra di loro e prima di allontanarsi gridano esempi di lussuria e sodomia punita. Il poeta rimane giustamente colpito dall’avvenimento e perciò , dopo aver spiegato alle anime del primo gruppo, che nel frattempo avevano riportato la loro attenzione verso l’interessante uomo con l’ombra , che lui stava percorrendo un cammino verso una donna amata(Beatrice) per purificarsi dai propri peccati e che non era anche lui ormai solo un’ anima, ma un uomo in carne ed ossa, desidera una spiegazione di tutto ciò che aveva appena visto accadere; è proprio lo stesso penitente, che per primo aveva avuto il coraggio di parlare a Dante, a descrivere ciò che nella settima cornice del purgatorio avviene: la fila di anime appena allontanatasi è composta da lussuriosi “contro natura”, gli omosessuali, i quali, come si separano dall’altro gruppo, urlano “Soddoma e Gomorra!”, esempi di omosessualità punita, per potersi purificare; per quanto riguarda la sua categoria spiega:

Nostro peccato fu ermafrodito; 82

ma perché non servammo umana legge,

seguendo come bestie l’appetito…»

Siamo sempre più vicini alla parola del giorno, perciò soffermiamoci su questi tre versi: sebbene la prima schiera di penitenti sia composta da eterosessuali (l’anima utilizza il termine “ermafrodito”, poiché l'omonimo personaggio mitologico è conosciuto come un essere androgino e possedente entrambi i sessi) in vita non ha saputo contenere i propri impulsi e desideri, facendosi guidare dal solo appetito. Essendosi pentiti possono scontare il proprio peccato al purgatorio, perciò con una possibilità di riscatto. Proseguendo:

in obbrobrio di noi, per noi si legge,

quando partinci, il nome di colei

che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge» 87

Eccoci quindi giunti al momento aspettato: i lussuriosi “secondo natura” per la loro vergogna debbono urlare, come si allontanano dalla schiera dei sodomiti, “il nome di colei che s’imbestiò ne le ‘imbestiate schegge”. Chi quindi fra voi lettori riesce a ricordarsi il nome di colei che “si rese simile a una bestia per aspetto e comportamento”, all’interno di una struttura lignea a forma di animale? Chi fu quella donna che “s’imbestiò” per eccesso di lussuria? Nel caso voi non riusciate a ricordare, la risposta è la seguente: il penitente con tale verbo si riferisce alla figura mitologica di Pasifae. Infatti, ella, secondo il mito, è la moglie del re cretese Minosse, il quale aveva ricevuto in dono un bellissimo toro bianco da parte del dio Poseidone e gli era stato comandato dallo stesso di sacrificarlo in suo onore; non volendo il re uccidere tale rara bestia, il dio dei mari, per mezzo di una maledizione, fa innamorare Pasifae del toro, tanto da volersi accoppiare con questo. Così la donna assegna l’incarico a Dedalo di costruirle una vacca di legno con un apparato apposito per potersi riprodurre con la fiera; dall’unione dei due nascerà il Minotauro, che Dante pone nel VII cerchio dell’inferno, fra i violenti.

Insomma, si è così quasi giunti alla conclusione, però è necessario specificare che il reale protagonista del XXVI canto è proprio il coraggioso penitente, il quale si scopre essere Guido Guinizzelli, il fondatore dello Stil Novo; vi sarebbe un lungo discorso da sciogliere su questo argomento, che ci tocca rimandare a futura analisi. Perciò, salutiamoci ragionando sulle seguenti riflessioni: l’episodio appena riassunto è uno dei tanti esempi, che ci dimostrano il coraggio del sommo poeta e la sua apertura mentale per un uomo del medioevo: uno scrittore moderno se interpretato all’interno del suo tempo. Basti pensare che pone gli omosessuali, in quel periodo condannati a morte, null’ultimo cerchio del purgatorio, il più vicino al paradiso terrestre, ma anche allontanandoci dal canto analizzato egli manifesta di avere un atteggiamento benevolo nei confronti dei mussulmani e dei pagani, viceversa disprezza potenti uomini di chiesa.

UGAS VIOLA