Prof.ssa Patrizia Fava


 L’OSSIMORO

È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte […]. […] fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch’egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. […] La verità è che sono unico.

Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna vi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.

[ … ] ma so che [ …] il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d’uomo? O sarà come me?

In questo antico mito, rivisitato da J. L. Borges, forse una delle possibili risorse per far fronte almeno in parte, sul piano emotivo, alla gravissima contingenza che ci mette a dura prova.

Io sono quell’ “altro” che sto aspettando, nella mia solitudine.

Asterione, chiuso nel suo Labirinto, ha bisogno dell’“altro”, ne ha un bisogno così profondo che costruisce l’”altro” nel suo immaginario, e, per quanto caparbiamente convinto della propria unicità - come spesso siamo o siamo stati troppo a lungo anche noi - deve ammettere che l’altro non è che un doppio di se stesso. Benchè “in -dividui”, che portiamo impressa la nostra unicità proprio nel sostantivo stesso con cui veniamo indicati, paradossalmente non possiamo far a meno della socialità, della comunanza, della vicinanza. Per questo il Coronavirus ci colpisce due volte, ci ferisce nel corpo e nell’anima. Ma forse, proprio prendendo atto di questa atroce e ossimorica verità, avremo l’opportunità di salvarci, se comprenderemo che gli altri siamo noi, che non possiamo pensare di proteggere noi stessi senza tutelare gli altri.

Davvero curioso, questo virus: ci impone la distanza, ma richiede la vicinanza per essere affrontato, e sconfitto. Un ossimoro terribile e stupendo (nel valore etimologico dell’aggettivo: desta uno stupore agghiacciante); la distanza per tutelarci e la sinergia per sopravvivere: equipe mediche e paramediche, una catena di lavoratori che ci garantiscono i beni di prima necessità, la coesione delle istituzioni e delle forze politiche. Parlare in prima persona plurale, poiché il linguaggio è forma mentis, espressione della nostra più profonda e rielaborata lettura della realtà, sarebbe dunque un passo importante, apparentemente semplice ma significativo. La scuola è avvezza a farlo: essa, in quanto “comunità” educante, fonda la propria identità, appunto, nel concetto di comunione, che, da cum munus allude appunto alla condivisione di dovere, una sorta di obbligo donativo, che configura la relazione comunitaria in termini di un dare e darsi. La scuola, dunque, come la società, del resto, si fonda su un rapporto di coabitazione e vicinanza (non a caso oikos e vicinus hanno in comune la stessa radice etimologica) che neppure le drastiche e più che doverose misure di distanziamento sociale possono e devono compromettere. Docenti e alunni hanno per così dire vissuto una relazione di ospitalità: inaspettatamente separati, teniamo ancora tra le mani ciascuno un frammento della nostra tessera ospitale: l’amore per la cultura e l’averla, ancora etimologicamente, “coltivata” insieme, rappresenta il nostro symbolon. Con umiltà e consapevoli della pochezza del nostro contributo a fronte di chi mette a repentaglio la propria sicurezza per curare il prossimo, tentiamo comunque, almeno in parte, di medicare una delle ferite emotive che il Coronavirus ci ha inferto, colpendoci nella nostra più vera essenza, ossia quella relazionale, in quel fondamento di humanitas che ci connota e che ci induce, istintivamente, a cercare la vicinanza con il prossimo. Ecco perché il Liceo “E. Amaldi” he scelto di sottolineare, anche nella comunicazione, che l’esperienza di Didattica a distanza, di fatto, non può che tradursi in un’operazione di Vicinanza, in una Didattica di Vicinanza, appunto. 

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te».

John Donne,

da Meditazione XVII

in Devozioni per occasioni d’emergenza

Prof.ssa Patrizia Fava

Ultima revisione il 10-11-2020