Prof. Francesco Di Gregorio


Il virus sta mettendo a nudo - impietosamente, direi, dato che la pietà non è un sentimento proprio degli agenti patogeni - ambivalenti evidenze della nostra umanità.

La malattia ci allontana l’uno dall’altro in un duplice senso: in un primo significato, meramente fisico, esso ci costringe nelle nostre case (al sicuro delle nostre case, dovremmo dire però più correttamente), ci impedisce di scambiare chiacchiere, gesti, sguardi, sorrisi, ammiccamenti, cenni di intesa. Ci impedisce perfino, più malignamente, di ignorarci, di voltarci dall’altra parte, di alzare gli occhi al cielo e silenziosamente inveire per un incontro sgradito. In un secondo senso, più profondo, ontologico, la malattia annulla la nostra essenza. Già diversi operatori medici, intervistati, denunciano una spersonalizzazione del prossimo, nello specifico del paziente. Ancora pochi giorni fa, Damiano Rizzi - psicologo e presidente della Fondazione Soleterre, collaboratore de Il Fatto Quotidiano e attualmente al lavoro in supporto al Policlinico S. Matteo di Pavia - ha parlato di “malattia della solitudine”. Sono soli gli operatori, siamo soli noi (anche chi ha una famiglia con cui stare è, quantomeno, un po’ più solo), sono soli i ricoverati. Tutti, soprattutto questi ultimi, irriconoscibili perché celati dalla mascherina e da tutti i parafernali necessari alla cura; una cura a metà, monca, proprio perché mutilata del potersi riconoscere reciprocamente, del dare un volto e una storia ad un nome riportato su una cartella clinica o su un cartellino appuntato su un camice, dello stabilire quel  contatto umano, quell’empatia necessaria che avvia il percorso di guarigione.

È una spersonalizzazione che abbiamo già conosciuto, ma in maniera più subdola e perversa, nel nostro passato; quella che ha causato stragi e genocidi (ricorreva proprio il 24 marzo l’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine). È la spersonalizzazione, figlia di quella banalità che non è unicamente legata all’eccezionalità del virus e della quarantena. È la spersonalizzazione grigia della routine da cui tutti eravamo inebetitamente travolti, ciecamente assorti dal nostro correre a destra e sinistra, avanti e indietro e ancora di là e di qua dietro alle scadenze, alle consegne, ai meeting, alle riunioni, agli appuntamenti… 

Impietosamente, per l’appunto, ci scopriamo (ci ri-scopriamo) fragili. Di una fragilità che è impotenza di fronte a qualcosa che non possiamo vedere, che non possiamo controllare.

Ma non è così sempre? Non è questo il nostro modo, il nostro funzionare nel mondo? Non è questo il nostro essere più intimo?

L’eccezionalità della situazione rende solo più evidente quella che per noi è regola, il nostro canone; uso questo termine perché sì, essere umani è un po’ anche arte, la greca techné. Ed è proprio qui, nel complesso di regole che compongono la dimensione dell’umano, recinto allo stesso tempo protettivo, perché saldo e rassicurante, e minaccioso, perché oltre non siamo più - e forse non siamo nulla, che, con un ultimo colpo di coda, si ribalta la situazione, sparigliamo le carte, facciamo la nostra mossa finale. E vincente. Questa mossa si chiama coscienza, consapevolezza. E se è la fragilità la nostra più intima debolezza, la coscienza della nostra fragilità è ciò che riscatta la nostra condizione. Fragili sì, ma meravigliosi.

Prof. Francesco Di Gregorio