Una sfida metatemporale


La cultura classica oggi, tra valori e disvalori di un mondo sottoposto all’incombere di una nuova e subdola barbarie

CLASSICI VS. HATERS

UNA SFIDA METATEMPORALE

Può Orazio, con l’assistenza di Seneca e Aristotele, porre rimedio alla piaga degli haters sul web?

La domanda, posta a bruciapelo, non può che lasciare perplessi. Eppure, posso garantire che non si tratta solo del delirio dovuto a lunghe ore di studio. Meglio procedere con ordine, partendo dalla definizione di un termine di uso abbastanza frequente: barbarie. È questo un tipico caso di concetto che trascende il proprio significato originale: utilizzato dai Greci per indicare, non senza esprimere un giudizio di valore, chiunque non parlasse la loro lingua, è ben presto diventato, per estensione, sinonimo di rozzezza, ignoranza, violenza. Poco importa che, in origine, venissero considerati barbariche anche civiltà avanzate e raffinate come quella dei Persiani: già nella Roma repubblicana la trasformazione era stata compiuta, e la parola barbaro era stata indissolubilmente legata all’immagine del selvaggio irsuto, privo di cultura e dedito alla forza bruta.

I barbari, intesi come Vandali, Visigoti, Unni, sono spariti dal teatro della Storia, confluiti nel variegato tessuto dei moderni popoli europei. La barbarie è invece rimasta, seppur con nuove sembianze. Non è così facile definire i confini della moderna barbarie, che non si presenta più sotto le grossolane fattezze di robusti omaccioni armati di scure. Molte cose sono state definite “barbarie”: si citano spesso la barbarie nazista e quella comunista; Marcuse definì così la parvenza di libertà data dalla società capitalistica; si esclama con sdegno “è una barbarie” parlando della criminalità organizzata, di delitti di sangue, di leggi considerate ingiuste, di atti di vandalismo, ma anche di comportamento antisportivo, di diffamazione e persino dello scempio delle tradizioni culinarie (e che il finto parmigiano made in usa sia una barbarie è per l’autore una verità incontrovertibile). Le applicazioni sono insomma molteplici e fanno sì che la parola diventi in qualche modo nebulosa: tutti sanno cosa voglia dire, ma pochi saprebbero definirne i contorni esatti. È necessario andare alle radici dell’universale ed estrarne l’essenza: il rapporto antitetico con la civiltà. Barbarie è ciò che va in direzione nettamente opposta alla civiltà, alle basi della vita sociale e di conseguenza all’umanità stessa: se infatti è vero che l’uomo è uno ζωόν πολιτικόν, allora chi non agisce in conformità ai principi della vita associata è necessariamente un po’ meno che umano. Non sarebbe lecito giudicare negativamente per questo gli antichi popoli barbarici: essi erano semplicemente più grezzi, più vicini ai “bestioni primitivi” di Vico, conformi al loro modello ancora embrionale di società. Diverso è il caso di quanti, pur essendo nati all’interno di una società consolidata, dotati di strumenti conoscitivi pari a tutti gli altri, si trovino ugualmente ad allontanarsi dalla civiltà, vuoi per scelta, vuoi per predisposizione naturale. Barbaro è l’istinto di prendere a mazzate l’altro, anziché confrontarsi con lui a parole. L’atto di percuotere i crani con oggetti contundenti è, perlomeno in larga parte, caduto in disuso (anche se recenti fatti di cronaca fanno temere il contrario): il barbaro d’oggi ha sostituito il maglio di ferro con il meno cruento, ma non per questo più innocuo, computer. Ebbene sì, gli haters, i webeti, i leoni da tastiera che imperversano sui social network sono una perfetta espressione della barbarie odierna. Con questo non intendo dire che siano i soli barbari del XXI secolo – magari fosse così; ma di sicuro rappresentano una categoria ampia ed esemplare. Liberati dai già deboli freni inibitori grazie alla comunicazione non diretta, che garantisce maggiore libertà d’ingiuria, si lasciano andare senza remore a sfoghi di impetuosità e sfoggi d’ignoranza, insultano con violenza e perverso piacere. In casi estremi i loro commenti spingono le vittime al suicidio, come i giambi di Ipponatte, con il quale non condividono affatto l’abilità poetica, ma solo l’acredine. La vita civile si fonda sul confronto razionale tra cittadini: nel momento in cui qualcuno scardina del tutto la razionalità solo perché l’impersonalità della rete lo fa sentire autorizzato, si sottrae alla civiltà.

E veniamo quindi alla domanda iniziale. I classici, per quanto sembri strano, costituiscono una delle più preziose risorse per correggere, e non annientare, l’odierna barbarie, per riportarla alla civiltà. Chi meglio di loro, che hanno gettato le fondamenta della nostra cultura, può porre rimedio alle storpiature? Est modus in rebus: questo il monito che Orazio lancerebbe agli haters, invitandoli ad esprimere le loro opinioni, com’è loro diritto, senza eccedere nei toni, in modo che esse risultino più comprensibili e anche condivisibili; ognuno dovrebbe cercare una propria aurea mediocritas, il giusto mezzo tra gli eccessi che, tanto negli atti quanto nel linguaggio, nobilita l’uomo e la sua razionalità (e questo dovrebbe essere tenuto a mente anche da chi, pur ricoprendo ruoli di rilevanza nella società, tende ad imbarbarirsi, forse pensando che questa sia la strada più rapida verso il consenso). Seneca contribuirebbe alla riabilitazione illustrando gli effetti disastrosi che l’ira ha sul corpo e sull’animo umano, invitando a mantenere la calma e il raziocinio. E Aristotele, con il tocco di teatralità che lo distingue, chiuderebbe con una massima: “L’uomo migliore è chi fa uso della virtù non riguardo a sé stesso, ma riguardo agli altri”. Così ricorderebbe che il fine della discussione non è prevalere sulle ragioni dell’altro, ma dimostrare le proprie: non indulgere nell’autocelebrazione egocentrica ricoprendo l’interlocutore d’insulti, bensì cercare di portarlo a condividere la propria visione, possibilmente raggiungendo insieme una verità superiore.

Anche Aristotele, Seneca e Orazio, come gli antichi barbari, hanno cessato di esistere. Non possono più rivolgersi direttamente agli haters. Ma possono continuare a farlo tramite le loro opere immortali e continuare così ad essere maestri di civiltà. Non ci si può certo aspettare che siano i moderni barbari ad avvicinarsi alle letture classiche: il cammello non passerà per la cruna dell’ago. È compito di chi ha la fortuna e la possibilità di comprendere e studiare gli scritti dei classici divulgarli nel proprio presente, recuperare e attualizzare i messaggi del passato per ricondurre alla civiltà i nuovi barbari. È senza dubbio un’impresa titanica: ma chi vi si dedicherà potrà dire di aver realmente messo in pratica l’eterna lezione dei classici. Compiuta, anche solo in parte, la sua opera di civilizzazione, sarà un nuovo Pericle; come lo stratego poteva dichiarare con orgoglio che Atene era “la scuola dell’Ellade”, così egli si fregerà del titolo di civilizzatore, non violento e coercitivo ma saggio e persuasivo. Un nuovo “classico” per i suoi posteri.

 

Lorenzo Robbiano