La guerra raccontata dai bambini
La guerra raccontata dalla voce dei bambini
«Mi domando – disse – se le stelle sono illuminate perché un giorno ognuno possa trovare la sua»
Antoine de Saint-Exupéry,
Il piccolo principe
Qual è la fotografia del 2025? Scatto la mia.
Omar è piuttosto seccato. Questa cosa di essere diventato il capo famiglia a tredici anni non gli va giù. Ha due fratelli più grandi (e due più piccoli) e quindi toccherebbe a loro. Su questo non ha dubbi. Solo che il primo, Souhaib, non lo lasciano uscire dalla Striscia e il secondo, Ahmed, è sdraiato proprio dietro di lui, nel letto del dipartimento di Patologia e cura del bambino dell’ospedale Regina Margherita di Torino. È attaccato ad una flebo e non ha più una gamba e un pezzo di bacino. «Da grande voglio fare il dottore, per curare Ahmed e quelli come lui» dice Omar, mentre si sistema i capelli di fronte alla videocamera che riprende la nostra conversazione.
È un ragazzino con una faccia da cinema, spiritosamente vanitoso. I pensieri rapidi, gli occhi che brillano castani, magro come un chiodo, una felpa bianca che lo fa sembrare ancora più sottile. «Non sono tanto alto, lo so».
«Ma non è colpa mia. È che a Gaza c’è l’acqua per due ore al giorno, un giorno sì e un giorno no. E io devo correre a prenderne il più possibile tenendomi i secchi sulle spalle. Sono quelli che non mi fanno crescere. Mi schiacciano».
In realtà è la vita che ha provato a schiacciarlo. Miracolosamente non ce l’ha fatta. «I bambini di Gaza sono pieni di risorse e di intelligenza», dice la sua mamma, che si chiama Sanaa e di mestiere fa la psicologa.
La guerra, nella testa di Omar, è un incubo ininterrotto da esorcizzare secondo per secondo. L’unico modo per farci i conti, per fingere di controllarla, persino di dominarla, è di parlarne continuamente, nel dettaglio, come se sminuzzarla fosse il solo modo per sopportarla. «È la più brutta delle malattie», spiega.
Lo ha detto anche Papa Leone a Natale, puntando il dito contro chi manda i giovani a morire in guerra: «In questi giorni non possiamo non pensare alle tende di Gaza, da settimane esposte alla pioggia, al vento e al freddo. La carne umana sofferente chiede accoglienza tra le rovine di città interamente da ricostruire». Il riconoscimento di un macello planetario di cui i ragazzini palestinesi sono i testimoni più riconoscibili, persino più dei giovani soldati ucraini, una generazione polverizzata nel conflitto scatenato da Vladimir Putin. La terza guerra mondiale a pezzi che ci sta facendo a pezzi.
Secondo Franca Fagioli, direttrice del dipartimento che ha organizzato l’incontro, nessuno racconta la guerra con la lucidità dei più piccoli. Ha ragione. Un orrore visto dal basso, senza incrostazioni politiche, senza sovrastrutture ideologiche, senza colpe né responsabilità, solo la descrizione di una violenza e di un dolore che diventano padroni dei tuoi giorni, si infilano sotto la pelle, invadendo il corpo e i pensieri. Uno choc costante che ti trasforma. Lentamente. Inesorabilmente. Per sempre. Sei mai stato un bambino, davvero, Omar?
Lo penso senza chiederglielo. Si è già domandato tutto da solo. «Prima c’erano la scuola e i giochi, poi sono arrivati i razzi. Il vostro Natale è fatto di luci e di fuochi d’artificio, il nostro di esplosioni, odore di bruciato e macerie». La voce è metallica, squillante, a tratti nervosa, ma senza rabbia. Il tono si fa più grave solo quando racconta delle due esplosioni che hanno cambiato tutto.
Prima esplosione. Gaza City. Mattina. «Stavo giocando con gli altri bambini, all’aperto. Abbiamo sentito un boato. Vicinissimo. Siamo corsi a casa. Mio fratello più grande mi si è avvicinato tenendo qualcosa in mano. Non capivo che cosa fosse. Mi ha detto solo: seppelliscilo, è il testicolo di Ahmed. Mi sono messo a piangere. Ahmed ha due anni più di me. Ho pensato che sua la vita fosse finita, che non sarebbe più stato come gli altri. Ho seppellito il suo testicolo assieme ad un dito di mio zio. Poi abbiamo portato Ahmed all’ospedale».
Una barella come letto, una flebo per alimentare quello che restava del suo corpo. Un intervento senza anestesia. Il bisogno di asportare l’intero apparato genitale. Un pezzo di fegato. E l’iscrizione nella lista di chi poteva essere salvato solo in Europa.
Adesso Ahmed è qui a Torino. Saluta con una mano. Dice: «Sto meglio, prima o poi riuscirò ad alzarmi e a vedere l’Italia. Per ora conosco solo questa stanza d’ospedale, ma sono grato a tutti». Omar vorrebbe regalare ad Ahmed una maglia della Juve, la sua squadra del cuore. «E un autografo di Buffon».
Si risistema i capelli folti appena tagliati e si rimette a parlare davanti alla telecamera dopo essersi accertato che l’inquadratura gli renda giustizia. Ha urgenza di dire. Anche i due fratellini più piccoli, Qasiem, undici anni, e Fatima, quasi quattro, si siedono di fianco a lui. Mamma Sanaa non li perde di vista un istante. «La seconda esplosione è quella che ha ferito Fatima. Eravamo tutti in casa. E la zia, al piano di sopra, stava preparando ancora una volta lenticchie. Non ne posso più di lenticchie. Quando è arrivato il razzo, mia zia Amina è volata di sotto. Si è spezzata tutta. Non aveva più un osso sano. È morta all’ospedale. Sua figlia Urud, tre anni, invece sembrava addormentata. Fatima si è avvicinata a lei e le ha detto: svegliati, svegliati, andiamo all’ospedale. Vedrai che là ricominceremo a giocare. Ma Urud ha detto che voleva dormire ancora. Che non si voleva svegliare più. Infatti, non si è più svegliata».
Fatima si tocca la testa. Le lenticchie della zia, volando per aria, le hanno bruciato una parte della fronte e i capelli. Che adesso, però, hanno ripreso a crescere. È semplicemente bellissima. Omar parla per tutti. «Studieremo. Ecco che cosa faremo da grandi. I medici. O comunque dei lavori qualificati. Per stare bene. Aiutarci tra di noi».
Ci tornerai mai a Gaza, piccolo Omar? Omar spalanca gli occhi. «Non capisco la domanda». Gaza è una distesa di macerie per lui. Un posto che non esiste più. Dove la morte t’insegue costantemente. La fame, il freddo, le malattie, i droni, le bombe. «Un razzo ha colpito una festa di matrimonio la settimana scorsa. Sono morte dieci persone. Gli israeliani dicono che la guerra è finita. Ma è una bugia. Ora però sono qui, in Italia. E l’Italia è bellissima. Potreste fare arrivare anche mio fratello Souhaib? Così il capo famiglia torna a farlo lui».
Sanaa racconta dei droni zanzara, marchingegni malefici che riempiono l’aria di un suono insopportabile e penetrante, che rende le conversazioni impossibili. E poi dei droni-spia, che si infilano nelle tende a brandelli e filmano le famiglie che provano a dormire. «Eppure, io ci credo che Gaza tornerà quella di prima. Magari tra due anni. Sarà bello tornare e sarà bello guardare le stelle del nostro cielo». Fa venire in mente il Piccolo Principe con la sua volpe. «Mi domando se le stelle sono illuminate perché un giorno ognuno possa trovare la sua». Forse.
Oggi immaginare la fine del conflitto israelo-palestinese è un’utopia. Lo scontro sembra essersi cronicizzato, difficile immaginare di estirpare cattiveria e dolore, al massimo si può immaginare di contenerli. Gaza non è il Sudafrica di Mandela, ma un luogo in cui danzano fuori controllo tutti i nostri spettri: il fanatismo politico, religioso, la pochezza degli esseri umani. Ogni passo verso la pace – il sogno dei due Stati, delle due democrazie - sembra contenere un veleno che lo rende impossibile in tempo reale. Le grandi potenze hanno posato gli occhi su questo disastro dopo la barbarie del 7 ottobre e la carneficina di Netanyahu, ma adesso Stati Uniti, Russia, Cina e India, sembrano avere altro a cui pensare. C’è un ordine mondiale da ridefinire alla radice in questo subentrante 2026. Non promette bene. Specie per i più fragili. Gaza è finita di nuovo nello scantinato degli interessi umani. La sua popolazione schiacciata tra la rabbia di Netanyahu e la furia omicida e terrorista di Hamas, capace di trovare finanziamenti persino in Italia. Qual è il momento in cui siamo capaci di isolare la follia? Di dire basta? Di prendere le distanze dall’inumano? «Spero che la Storia sia fatta per stupirci». Spero anch’io.
Sanaa abbraccia Omar che per la prima volta sembra lasciarsi andare. Ha bisogno di quel calore materno. Ha bisogno di essere trattato per quello che è: un bambino.
Ultima revisione il 28-12-2025
