Il primo giorno di scuola e l'arte del rammendo

rammendo

Insomma, andavo male a scuola. Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l'ultimo della classe, ero il penultimo. (Evviva!) Refrattario dapprima all'aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografico, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazione dei luoghi geografici, inadatto all'apprendimento delle lingue straniere, ritenuto pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti), portavo a casa risultati pessimi che non erano riscattati né dalla musica, né dallo sport né peraltro da alcuna attività parascolastica.

«Capisci? Capisci o no quello che ti spiego?». Non capivo. Questa inattitudine a capire aveva radici così lontane che la famiglia aveva immaginato una leggenda per datarne le origini: il mio apprendimento dell'alfabeto. Ho sempre sentito dire che mi ci era voluto un anno intero per imparare la lettera a. La lettera a, in un anno. Il deserto della mia ignoranza cominciava al di là dell'invalicabile b. «Niente panico, tra ventisei anni padroneggerà perfettamente l'alfabeto». Così ironizzava mio padre per esorcizzare i suoi stessi timori.

Molti anni dopo, mentre ripetevo l'ultimo anno delle superiori inseguendo un diploma di maturità che si ostinava a sfuggirmi, farà questa battuta: «Non preoccuparti, anche per la maturità alla fine si acquisiscono degli automatismi...». O, nel settembre del 1968, quando ho avuto finalmente in tasca la mia laurea in lettere: «Ti ci è voluta una rivoluzione per la laurea, dobbiamo temere una guerra mondiale per il dottorato?».

Detto senza alcuna particolare malignità. Era la nostra forma di complicità. Mio padre e io abbiamo optato molto presto per il sorriso.

(Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli 2008)

Oggi si inizia. Abbiamo lavorato per settimane in vista di questo giorno. Programmi e progetti. Banchi e orari. Aule e persone. Per cominciare bene, in questa società dominata dalla paura e dalla rabbia. Per fare in modo che vada tutto bene. Ci abbiamo dato dentro, con il cuore e con la mente. Abbiamo cercato di fare del nostro meglio. Ce lo chiede la Costituzione, qualunque sia il nostro ruolo. Ma non basterà. Troverete tutti, ragazzi, genitori, insegnanti, lavoratori della scuola, qualcosa che non funziona. Ci saranno cose inadeguate e insuccessi. Qualcosa verrà dimenticato, qualcosa non sarà come deve, qualcosa, magari, non sarà neppure stato pensato. Nonostante tutti i nostri sforzi, ci saranno fallimenti. In qualunque ruolo, siamo noi ragazzi, genitori, insegnanti o lavoratori della scuola, faremo comunque errori e non saremo mai esenti da critiche: sbaglieremo e ci verrà fatto notare. I filosofi usano su questo una parola importante: “finitudine”, che vuol dire che abbiamo limiti e quindi siamo condannati ad essere imperfetti. O, se preferite, l' “Amaldi” e le persone che ci vivono sono pieni di buchi.

Cosa possiamo fare di tutto questo inciampare, tanto spiacevole quanto inevitabile? Possiamo usarlo per dare la caccia gli uni agli altri, cercare le colpe, biasimare, punire, provare vergogna. Ciascuno nella propria solitudine di giustiziere o vittima. Oppure riconoscere la finitudine che ci unisce, e optare, come il padre di Pennac, per il sorriso. Con le parole dello scrittore Alessandro Perrissinotto, provare a rammendare i buchi per non caderci dentro. Non cadere nei precipizi e magari cercare di prendere al volo qualcuno proprio prima che ci cada dentro.

A voi, a noi, la scelta. Buon anno scolastico, con tutto il cuore.

Il Dirigente

Ultima revisione il 19-09-2024